La libera scelta di aderire ad una comunità “religiosa” e lo stato di libertà fisico nel quale si continua a vivere dopo l’adesione alla setta, non bastano per escludere la riduzione in schiavitù. La tutela penale deve, infatti, essere assicurata contro ogni manipolazione anche psicologica, tesa ad annientare o a comprimere in modo sensibile la sensibilità altrui. Partendo da queste premesse la Corte di cassazione (sentenza 13815) accoglie il ricorso della Pubblica accusa che chiedeva la condanna per il reato di riduzione in schiavitù per l’imputato: un ex parroco, che per 20 anni aveva condizionato la vita e sfruttato molti suoi ex parrocchiani che lo avevano seguito, dopo la sua sospensione a diviniis, nel suo nuovo cammino “religioso”, che lo aveva portato a creare una comunità in un ex convento di Montecchio.
Elargizioni in denaro e scelte indotte
Per due decenni l’uomo aveva condizionato le scelte di vita dei suoi seguaci, imponendo matrimoni, inducendoli ad abbandonare le famiglie, soprattutto quelle che facevano resistenza alla “conversione”, il lavoro, gli amici. Insomma tutto quello che li portava lontano dalla salvezza eterna. Era questa, infatti, l’unica minaccia usata dell’ex prete: la dannazione eterna. Con questo spauracchio si era fatto fare donazioni per la comunità, visto che né lui né i suoi più stretti collaboratori lavoravano, e aveva orientato le esistenze dei “fedeli”. Per arrivare allo stato di grazia erano previsti anche dei riti purificatori, che si traducevano, di fatto, in violenze sessuali, reato per il quale era stato condannato. La Corte d’assise d’appello aveva però escluso la riduzione in schiavitù, valorizzando alcuni elementi. La scelta di seguire l’ex parroco era stata libera, l’imputato esercitava un’influenza solo spirituale sugli adepti, priva di minacce, al netto della dannazione eterna, gli aderenti alla comunità vivevano altrove, lavoravano, frequentavano altre persone con le quali potevano confrontarsi. Tanto bastava per negare la riduzione in schiavitù.
Una tutela più ampia contro il reato
Per la Suprema corte però si tratta di una decisione basata su una nozione superata del concetto di schiavitù, legato alla limitazione fisica della libertà, all’inganno iniziale nell’instaurazione di un rapporto, alla stato di necessità, all’annientamento totale della libertà. Se così fosse – chiarisce la Cassazione – la tutela penale sarebbe troppo limitata, e non potrebbe essere applicata ad ogni forma di umiliazione dei diritti fondamentali dell’individuo. Il reato, previsto dall’articolo 600 del Codice penale, è invece compatibile con il quadro esaminato dai giudice. I “fedeli” erano persone, in origine, certamente libere, indubbiamente in una condizione di fragilità psicologica dovuta alla solitudine, alla depressione, a problemi affettivi o fisici, anche questi ultimi, tra l’altro, curati con riti vari perché sempre ricondotti a una presenza del maligno. Condizioni delle quali l’imputato si era subdolamente approfittato. L’ex prete, autoproclamatosi santo, prometteva una via d’uscita, da malattie, ansie e paure. La sua influenza era così penetrante da abbandonare mariti e mogli, accettare matrimoni combinati, lasciare l’attività, come era accaduto ad una farmacista, o vendere l’unico bene immobile per sostenere la comunità.
No alle umiliazioni anche se legate a convinzioni religiose
Una chiara condizione di sudditanza, che era durata per 20 anni. La Cassazione annulla dunque il verdetto, chiedendo di considerare il reato alla luce dei principi enunciati. E ricordando che il nostro ordinamento non consente «forme di umiliazione e di violazione dei diritti fondamentali, quali quelli descritti dalle vittime delle condotte dell’imputato, anche se correlate a convinzioni religiose o spirituali, quando compromettono in modo significativo i diritti fondamentali dell’individuo riconosciuti e garantiti dalla Costituzione».
[articolo di © Patrizia Maciocchi pubblicato il 17/04/2021 sul Sole 24 Ore]